Spatriati. Recensione e retroscena di un refuso

Ho trovato un refuso in un romanzo di Einaudi. Quello di Desiati che ha appena vinto lo Strega, Spatriati. Ci resti un attimo quando trovi un refuso in una edizione del genere: non te lo aspetti. Però è lì e grida qualcosa che ti trascina in un’altra storia. Quella di un editor trafelato, che conta le pagine ogni trenta minuti per capire quanto sta guadagnando, il telefono che squilla, un bambino che fa saltare la pastina di stelline ovunque dal suo seggiolone, un gatto che vomita il bolo sul bracciolo del divano. Questa è la versione che dissacra il romanzo, almeno.

Poi ce n’è un’altra possibile e che invece depenalizza il refuso. C’è, in quella “n” che manca nella parola “ancora”, un tratto di verità in grado di certificare che quello che si legge arriva direttamente dall’autore, sia pur senza intenzione. Il refuso è un sopravvissuto della prima stesura, sta lì, ha vinto lo Strega e puzza ancora di creazione. Ha resistito ai correttori di bozze, alle mille riletture dell’autore e forse anche a quelle del “cerchio magico” di cui tanti scrittori si servono prima di licenziare un testo in revisione. Sparirà solo quando arriveranno i traduttori per le edizioni in altre lingue o forse quando sarà il tempo di un’altra ristampa. Insomma,  se non sono troppi, i refusi posso addirittura far piacere.

Già che ci siamo, il romanzo è gradevole. Desiati è bravo, molto, ma non al punto di doverlo odiare. I due protagonisti, Claudia e Francesco, sembra già di conoscerli. Tra loro c’è qualcosa del rapporto di formazione che lega Jenny a Forrest Gump. Ma più ancora ricordano Pablo e Linda che ballano e fumano ne Il Compagno di Pavese. Diamine, li ricordano tanto che ora m’è parso quasi indelicato farlo notare.

È curioso come Desiati riesca a restituire l’atmosfera di un paesino meridionale, senza infondere il fetore della provincialità. Un po’ meno questo avviene nella rappresentazione degli italiani all’estero, degli “spatriati” alla Mecca londinese o della fascinosa Berlino. Ecco, quello stupore indotto dall’indispensabile altrove mi racconta più provincia di quanto facciano le cronache da Martina Franca.

Succede poi che per molte pagine si producano promesse che nel finale di Spatriati vengono evase ma non con assoluta lealtà. Certi fatti, che non potevano non essere, finiscono secondo me indebitamente messi in conto al caso. L’impressione costante è che i personaggi ubbidiscano di malavoglia a una trama ineluttabile e che nel farlo siano costretti sempre a cedere al lettore un po’ della loro disperazione. Per carità, meglio questo di una bugia.

 

Spatriati

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