Le parolacce si sono nascoste

Ma dove sono finiti i cazzi? Intendo, avete idea di dove siano finite le parolacce? No, non parlo certo del comune vernacolo ma delle parolacce vere, la vasta schiera di quei termini ed espressioni grevi o sconvenienti che a volte ci scambiamo senza filtri, chi più chi meno, di persona o su whatsapp. Le stesse che, immagino avrete notato, sono via via scomparse al cinema, nella televisione e in quella grande terra di mezzo delle serie tv. Forse resistono sulle tavole dei palcoscenici dei teatri, trattengono un po’ di spazio nei monologhi dei cabarettisti, ma spesso o è roba da educande o semplice volgarità cui si ricorre in testi scialbi e senza altra forza.

Cadute sotto la scure dell’autocensura nei canali tradizionali, bandite dagli algoritmi dei social, le parolacce sembrano come scomparse dai media, “nuovi” o vecchi che siano. Non è una gran perdita, e io stesso non me ne sento amputato, ma è un fatto. E a questo fatto consegue che una quota del nostro linguaggio comune, forse anche abusata, non trovi rappresentazione, come se non esistesse. E questa, invece, è certamente una perdita, se non altro in valore assoluto.

Non promuovo un’apologia del turpiloquio, depreco anzi la semantica dello scandalo, che tollero, al limite, se inteso in quella forma metaforica e nobilissima che può farsi addirittura politica e che per antonomasia direi pannelliana. Solo rilevo che, al netto degli abusi e dello sbraco, ci sono volte in cui, per fare un esempio che non vi turbi troppo, il cazzo può essere solo il cazzo, e in alcun modo il fallo o il membro.

Quest’ultima evidenza affiora stentorea nel bel libro di Emanuele Trevi, “Due vite”: 120 importanti paginette che gli sono appena valse il premio Strega ma che non ho trovato voglia di recensire nel dettaglio. Lì, però, Trevi riporta una riflessione di Pia Pera sull’ipocrita distinzione tra pornografia ed erotismo. Un discrimine sghembo che, traslando, serve di frequente solo a sostituire una parola giusta, ma intesa come volgare e irricevibile, con un’altra innocua ma a volte del tutto impotente sul piano del significato.

Personalmente mi sono imbattuto in un numero molto superiore di parolacce negli ultimi libri contemporanei che ho letto (compreso quello di Trevi) che attraverso qualsiasi altra forma di comunicazione mediata. Le parolacce, questo è il dato che farebbe titolo, si sono nascoste nei libri. Al riparo dai censori catodici, dai “direttori artistici e agli addetti alla cultura”, dalle grinfie di quelli del Moige (che si sono strappati le vesti per il “porca puttena” di Banfi in uno spot), o dall’intelligenza artificiale di Facebook, gli scrittori farciscono i loro libri di parolacce senza remore e timori. Amplessi descritti nei più roridi particolari; epiteti incuranti dell’appello imperante al conformismo sessuale, politico o religioso; l’anatomia che si riprende i suoi spazi nella comune toponomastica dei corpi. Insomma, la libertà. E non è una bellissima sorpresa che questa libertà, al pari forse di ogni altra, ripari oggi nel polveroso, dimenticato ma immortale supporto della letteratura, nei libri? Lasciatemi dire, cazzo se lo è.

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